“La vigilanza” – Il sentiero dei Giusti di Ramchàl
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La vigilanza
“La Torà conduce alla vigilanza”.
Questa è la prima middà del nostro sentiero. È la “zehirùt”, che possiamo tradurre anche come attenzione. Consiste nel vagliare e valutare le nostre azioni prima, mentre e dopo che abbiamo agito.
Spesso, dice il Ramchàl, siamo distolti e distratti dal peso delle fatiche quotidiane, come dei veri e propri schiavi non riusciamo ad avere il tempo e la volontà per riflettere e staccarci dal vortice che ci cattura ogni giorno. Fu proprio il faraone che non solo rese schiavi i figli di Israele, ma tolse loro anche il loro giorno di riposo e quindi la possibilità di qualsiasi riflessione.
Come si mette in pratica la “zehirùt”? Bisogna capire quale azione è giusta e quale potrebbe essere sbagliata; dobbiamo scavare anche nelle azioni obbiettivamente corrette per sapere se ci sono in esse, nonostante tutto, aspetti meno buoni.
Che si fissi un momento durante il giorno per esaminare il nostro operato, per fare un “cheshbòn nèfesh”, un conto dell’anima, potremo dire alla lettera, un’autovalutazione, un esame di coscienza, affinché tutti i nostri giorni siano di teshuvà, di ritorno ad Hashèm.
Questo tipo di lavoro su se stessi porta luce e chiarezza al contrario di quello che invece cerca di fare lo yetzèr harà, l’istinto cattivo, il quale tenta di confonderci e di farci camminare nel buio. Questo mondo è simile alla notte e noi cerchiamo di ricevere luce dalla Torà per orientarci nelle difficoltà. Vaghiamo come in un labirinto che ha dei vicoli ciechi che non portano da nessuna parte. Per questo dobbiamo seguire la strada che ci indicano i maestri che hanno già trovato la via d’uscita all’interno di tale percorso.
Cosa ci può indurre ad acquisire tale virtù? Sicuramente se pensiamo a quale potrebbe essere la punizione se non analizziamo le nostre azioni saremo spinti a cercare di fare nostra tale qualità morale. Sappiamo bene che ogni azione è vista e giudicata dal Signore, dunque ancora di più, questa consapevolezza ci fermerà dal peccare. È vero che Dio è misericordioso, che lascia il tempo a chi ha sbagliato per fare teshuvà e non lo punisce immediatamente, ma non lascia correre se la persona non si pente.
Se poniamo attenzione ai traguardi spirituali e materiali che ottiene chi è vigile e coscienzioso saremo più portati a voler imitarlo spinti anche da una sana invidia[1].
Cosa, invece, ci ostacola dall’acquisizione di questa middà? La frivolezza, la mondanità e la cattiva compagnia. Possiamo ovviamente occuparci delle questioni del mondo, guadagnarci da vivere, ma solo per avere il minimo che ci permette di studiare Torà e di mettere in pratica i precetti comandati.
Anche l’attitudine a scherzare sempre e a considerare tutto poco serio non ci fa capire più cosa è giusto e cosa è sbagliato, non ci dà la possibilità di discernere e di distinguere, cosa che caratterizza l’uomo in quanto tale. Non dobbiamo confondere il riso che deve essere moderato dalla gioia che invece, come vedremo, è una precondizione e una parte fondamentale di questo nostro sentiero. La “leizanut”, il ridere e ridicolizzare ogni cosa, ci impedisce di dar peso ai rimproveri e agli ammonimenti costruttivi, è esattamente l’opposto della zehirùt.
[1] L’unica invidia permessa, infatti, è quella di Torà e mitzvòt che ci stimola a migliorare.
Di Micol Nahon Moscati