“La dedizione” – Il sentiero dei Giusti di Ramchàl
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La dedizione
“La vigilanza conduce alla dedizione”.
La dedizione o sollecitudine è la capacità di fare velocemente quello che ci viene richiesto. È scritto in Shemòt 12.17: “Controllerete le matzòt[1]” e sul verso Rashì commenta dicendo: “Non leggere “matzòt” ma “mitzvòt”, quando ti capita davanti un precetto, fallo subito affinché non “lieviti” e tu non perda l’occasione di metterlo in pratica”. Ciò non vuole dire che dobbiamo sbrigarci a fare la mitzvà prescritta per toglierci un peso o una incombenza, ma per paura che, se si dovesse ritardare, non riusciremmo a realizzarla fino in fondo.
La vigilanza era legata, come abbiamo visto, ai comandamenti negativi, ossia alla riflessione che ci dovrebbe portare ad astenerci dal fare qualcosa, mentre la sollecitudine è connessa ai precetti positivi, al fare senza essere presi dalla pigrizia o dal timore.
La natura umana, dice il Ramchàl, è dominata dalla materialità e dalla fatica che ci allontana da questa qualità, quindi, per acquisire tale middà dobbiamo andare oltre i nostri limiti. A volte non si prendono in mano le cose e si aspetta che lo facciano gli altri, per paura, per poca fiducia in noi stessi, non ci si prende la responsabilità e ci si abbandona a questa lassezza.
Tale solerzia è legata anche all’entusiasmo e alla gioia interiore che dovrebbero accompagnare il compimento di ogni obbligo. Più riusciremo ad agire con questa modalità, più anche l’entusiasmo crescerà in noi. Allo stesso modo se abbiamo un certo ardore interiore, riusciremo a vivere con dedizione.
È scritto nei Salmi[2]: “Come una cerva anela ai corsi d’acqua, così la mia anima anela a te, o Dio. La mia anima ha sete di Dio, del Dio che vive”.
La dedizione si acquisisce con gli stessi strumenti che abbiamo già citato rispetto alla vigilanza.
Cito il Ramchàl: “Se un uomo prende coscienza dell’immenso valore dei comandamenti e delle grandi responsabilità che ne derivano, il suo cuore si desta per il servizio divino e non se ne stacca più. […] Se contempla i molti benefici che il Santo ha offerto all’uomo, […] riconoscerà il grande debito. […] E visto che l’uomo non può ripagare adeguatamente, dovrebbe almeno esserGli grato e obbedire ai Suoi comandamenti”. Il ragionamento su questi aspetti ci porterà a essere più dediti al servizio divino.
C’è anche chi è spinto a migliorare in tale ambito morale per paura della punizione e per la vergogna che proverà nel mondo futuro.
Come dicevamo all’inizio, molte cose ci ostacolano in questo percorso; qui in particolare è il desiderio delle comodità e dei piaceri materiali che ci rende pigri e ci fa abituare a un tipo di comportamento che “si adagia sugli allori”. Dobbiamo invece riflettere sul fatto che siamo stati mandati in questo mondo con una missione, quindi per lavorare e per arrivare ai nostri obbiettivi spirituali già descritti sopra. “Siamo lavoratori a giornata” dice la Ghemarà[3].
Un’altra componente che ci mette i bastoni fra le ruote sono la paura e l’ansia eccessive per le incognite del futuro. È ovvio che dobbiamo riflettere prima di agire secondo la middà della vigilanza, ma è pur vero che chi invece pensa troppo e non agisce dimostra una mancanza di fede e fiducia in Hashèm perché teme sempre che si possano verificare delle cose spiacevoli. Dobbiamo riuscire a trovare il giusto equilibrio tra i due approcci. Talvolta, afferma il maestro, “Non è il timore che causa la pigrizia, ma la pigrizia che genera il falso timore”.
[1] Le azzime, affinché non lievitino.
[2] Salmi 42.2.
[3] Eruvìn 65°.
Di Micol Nahon Moscati