Introduzione – Il sentiero dei Giusti spiegato ai ragazzi
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Introduzione
di Micol Nahon Moscati
“Il Sentiero dei Giusti” è un’opera di Mussar, di morale, scritta da un grande maestro italiano, originario di Padova: Rabbì Moshè Chaìym Luzzatto, detto il Ramchàl.
Prima di tutto cerchiamo di capire che cos’è il Mussàr.
Il Mussàr è la parte della Torà che studia l’etica, il perfezionamento dei nostri caratteri e delle nostre qualità.
Questo miglioramento morale è un percorso che dobbiamo fare parallelamente all’acquisizione della pratica delle mitzvòt. Da una parte, più applichiamo i precetti comandati nel miglior modo possibile, più cambieremo anche la nostra interiorità e miglioreremo le nostre middòt. Come è scritto nel Sèfer Hachinuch[1]: “Dietro alle azioni vanno i cuori“. Dall’altra, è detto anche che la Torà non si mantiene se non in chi ha delle buone qualità morali.
Cosa sono queste middòt? Middòt significa letteralmente “misure”, ma possiamo tradurre il termine con l’espressione “caratteri” o “qualità”; sono l’umiltà, per esempio, la capacità di non arrabbiarsi, la bontà, il rigore, la determinazione, l’autorevolezza e la capacità di influenzare positivamente, l’equilibrio.
Dobbiamo tener presente anche che c’è una mitzvà scritta esplicitamente che ci comanda di perfezionare il nostro comportamento, è scritta in Devarìm 28.9 e dice così: “E camminerai nelle Sue vie”, è un precetto che ci chiede di imitare i comportamenti di Hashèm, come Lui dà senza che lo meritiamo, così dobbiamo fare noi, come Lui è misericordioso, così lo dobbiamo essere noi.
In questo testo il Ramchàl ci accompagna in un percorso che parte dallo studio della Torà per arrivare all’acquisizione via via di qualità morali sempre più elevate. Il maestro parte dall’insegnamento di rabbì Pinchàs ben Yaìr contenuto nella Ghemarà[2] che dice così:
La Torà conduce alla vigilanza, la vigilanza conduce alla dedizione, la dedizione conduce all’essere puliti dal peccato, l’essere puliti dal peccato conduce alla moderazione, la moderazione conduce alla purezza dell’intenzione, la purezza dell’intenzione conduce alla bontà, la bontà conduce all’umiltà, l’umiltà conduce al timore del peccato, il timore del peccato conduce alla santità, la santità conduce allo spirito di profezia e lo spirito di profezia porta alla resurrezione dei morti [3].
Di seguito andremo ad analizzare ognuna di queste qualità morali.
Prima di entrare nel vivo di tale sentiero, però, dobbiamo fare una breve premessa come fa l’autore nella sua prefazione e nel primo capitolo. Qui il Ramchàl ci spiega quale sia l’obbiettivo dell’uomo nel mondo, ci dice perché Hashèm fa scendere la nostra anima qui sulla Terra. La nostra missione è trovare in Dio la massima gioia e riuscire a godere della Sua Presenza, cosa che sarà possibile completamente solo nel mondo futuro, ma che dobbiamo cercare di fare anche qui; per arrivare a questo dobbiamo partire dall’osservanza dei precetti e dal perfezionamento dei nostri caratteri; più uno si sforza in questo mondo più avrà ricompensa e godimento in quello futuro.
Cosa vuol dire “trovare in Dio la nostra gioia”? Vuol dire sapere che l’appagamento più grande non ci viene dalle cose materiali, ma da quelle spirituali: dal fare tefillà[4], studiare Torà, passare lo Shabbàt[5] in famiglia, non da una bella pizza o da un vestito nuovo. Perché il piacere materiale finisce, la pizza pure, mentre il godimento in Hashèm non può finire perché Lui non ha limite.
Non c’è niente di male nel provare piacere nelle cose materiali, ma dobbiamo sapere che anche il buon cibo e i bei vestiti devono essere dedicati al Signore, così saranno elevati anche loro. Sappiamo infatti che se troviamo un cibo speciale o un vestito nuovo lo lasciamo per Shabbàt e per le feste.
Questa è la nostra missione: essere vicini a Dio e provarne piacere, ma in questo mondo ci sono tante cose che ci allontanano da Lui. Ci sono le tentazioni, c’è lo yetzer harà’[6], la nostra voce interiore che ci vuole convincere a non seguire la volontà di Hashèm, le prove, le fatiche quotidiane e il contesto in cui viviamo, tutto ciò ci mette “i bastoni fra le ruote”.
“Chi cede alle tentazioni”, dice il Ramchàl, “e si allontana dalla giusta strada distruggerà non solo sé stesso, ma anche il mondo, al contrario eleverà con sé lo stesso mondo”.
Quindi è vero che siamo tentati e allontanati dai piaceri materiali, ma abbiamo un’anima, un soffio vitale, una parte del Signore che ci rende a Sua immagine e somiglianza la quale in realtà non è mai completamente appagata da questi piaceri terreni.
Citiamo quindi il Qoèlet Rabbà per capire meglio questo concetto:
“A cosa è simile questo? È simile a un borghese di città che ha sposato la figlia del re. Se anche il suo sposo le offrisse tutto ciò che esiste nel mondo, nulla sarebbe di valore per lei, in quanto è figlia di un re. Lo stesso capita all’anima. Se anche le venissero offerte tutte le delizie del mondo, per lei non sarebbero nulla, perché essa viene da un mondo superiore”.
Per questo dobbiamo ricordarci da dove veniamo e comportarci nel modo che ci si addice di più ritornando a quel livello, risalendo piano piano middà dopo middà attraverso l’imitazione del Santo Benedetto.
[1] Testo medievale in cui vengono spiegate le motivazioni di tutte le mitzvòt.
[2] Parte della Torà Orale che con la Mishnà forma il Talmùd, un insieme di commenti dei maestri.
[3] Avodà Zarà 20b.
[4] La preghiera.
[5] Il giorno del riposo.
[6] L’istinto cattivo.