Parashàt Vayaqèl
Ogni giovedì Zeraim propone un pensiero sulla parashà della settimana a cura del direttore dell’Area Cultura e Formazione rav Roberto Della Rocca. Troverete qui anche il testo della parashà (il brano della Torà che si legge ogni sabato), insieme a interessanti materiali di approfondimento.
In questa pagina troverai anche la rubrica a cura di Micol Nahon “Horìm Uvanìm”, “Genitori e figli”, dedicato proprio allo studio di genitori e figli sullo stesso brano: un video da ascoltare e un racconto da leggere arricchito di midrashìm, seguìto da alcune domande per discutere e riflettere insieme.
La pagina ospita anche due rubriche kids e alcune pagine scelte da “La mia Torah”, le parashòt spiegate ai ragazzi, a cura di Anna Coen e Mirna Dell’Ariccia.
Shabbat Vayaqèl
Lo Shabbàt costituisce per noi ebrei il più forte antidoto contro l’idolatria. Lo si evince chiaramente dalla battuta d’arresto con cui la Torà interrompe l’elencazione di tutti gli oggetti necessari al funzionamento del Santuario per ricordarci, ancora una volta, la “costruzione” dello Shabbàt. Proprio nel mezzo del progetto più entusiasmante e laborioso, quello dell’edificazione del Tempio, e immediatamente prima del fattaccio del vitello d’oro, la Torà ritiene necessario ricordarci che la costruzione del “Santuario dello spazio” deve interrompersi quando inizia lo Shabbàt, il “Santuario del tempo”. La sospensione di ogni attività durante lo Shabbàt serve ad insegnarci che nell’etica ebraica il fine non giustifica i mezzi, mai, e che persino nell’edificazione del Santuario, la Comunità non deve perdere il senso della propria direzione lasciandosi sopraffare dall’impeto e dalla smania di costruire.
In un’epoca in cui tutto è monetizzabile e nella quale ci sembra di non riuscire più a fermarci perché ci sentiamo sempre in ritardo, il tempo manca, il tempo non c’è. Non si riesce a raggiunge mai la propria mèta, che si rivela spesso fine a se stessa, come una forza che non si lascia più manovrare. Fare e costruire lo Shabbàt non vuol dire solo trattenersi dal lavoro, ma anche trattenersi in sé, tornando a se stessi. Significa raccogliersi per lasciare spazio intorno a sé, prendendo quella distanza, dal consueto e dal quotidiano, che fa sì che tutto appaia in una nuova luce. Affanno, ansia, desiderio di captazione, caratterizzano i rapporti con le persone e con i progetti e finiscono spesso per coprirli, per renderli inaccessibili e per farsi divorare da questi.
Lo Shabbàt è la pausa momentanea per ascoltare la nostra voce interiore, un’interruzione, per chiederci chi siamo e dove stiamo andando, nel timore che l’agitazione, le energie profuse, i conflitti intrapresi (che la maggior parte delle volte non hanno neppure un perché) non ci facciano dimenticare i valori che giustificano l’esistenza stessa di una Comunità ebraica e delle persone che la compongono.
Rav Dott. Roberto Della Rocca